.|. Schegge di Follia - take 2 .|.
2.
Ai Confini del Mondo ~
Across the distant
night,
The forgotten people.
A whitening shadow
flickers and stands;
Right now it is an
illusion.
The people, sleeping
forever.
- From Final Fantasy
VI- “Toki no Hourousha” (Wanderer of Time)
L’orrore, l’orrore
assoluto, può avere due effetti su un Uomo. Può distruggerne la mente,
rendendolo un tremante guscio di sé stesso, o può agire come un balsamo,
forgiandone il carattere e aumentando la tenacia, dopo aver cancellato
misericordiosamente la memoria di ciò che è stato.
E così fu per Aragorn.
Le tremenda visione che lo
specchio gli aveva offerto si spense dentro di lui come una fiammella al
vento, lasciando dietro di sé una scia di fumo oleoso, appena visibile nel
buio, che contribuì a fortificarlo.
Difatti, quando Aragorn si
riprese, era del tutto ignaro di ciò che lo Specchio gli aveva rivelato.
O almeno lo rimase finché
alcune di quelle cose non le vide accadere, una dopo l’altra.
Non poteva essere passato
più di qualche minuto dal suo svenimento quando Aragorn si risvegliò,
disteso bocconi nella radura dello Specchio.
Una parte del suo cervello
ricordava il suo confronto con Galadriel, il modo in cui si era chinato
barcollando sullo specchio, gemendo per il dolore. Ma un’altra, più
significante parte era persa in una foschia tenebrosa, e si sforzava di
catturare le fugaci visioni che apparivano ai margini della sua coscienza;
creature di fumo che lo chiamavano a sé, e ridevano perché non riusciva a
raggiungerle.
Per un attimo ancora
Aragorn si rifiutò di aprire gli occhi. Poi, lentamente, i suoi sensi di
Ramingo lo avvertirono che c’era qualcosa di sbagliato in quella
radura, e con uno scatto Aragorn si tirò a sedere.
Dapprima, pensò di stare
ancora sognando.
Poi, quando si rese conto
di essere ben sveglio si illuse di poter essere impazzito.
Forse, concluse, sarebbe
stato meglio.
Ma no, era vero, era tutto
vero, e lui era sveglio e lucido come mai lo sarebbe stato.
Gli ci volle tutta la sua
forza di volontà per alzarsi in piedi, ma alla fine ci riuscì. Si sentiva
le ginocchia molli, e in fondo alla nuca gli palpitava un tamburo furioso.
Vacillò un paio di volte, ma finalmente rimase in equilibrio. Portò una
mano al volto per ripulirlo dal sangue e si guardò intorno.
Era nella stessa radura in
cui aveva perso i sensi, su questo non c’erano dubbi.
Il dove era quello
giusto.
Era il come ad
essere sbagliato.
Ciò che per prima aveva
destato i suoi riflessi era l’innaturale immobilità della radura: a
Lothlórien, terra di magie ancestrali e creature accattivanti, persino
l’aria stessa vibrava di una calda pulsazione benefica. I suoni
dolci dei boschi, seppur attutiti rispetto alle altre foreste della Terra
di Mezzo, aleggiavano nella brezza carezzevole come echi distanti e
melodiosi. E la luce, in qualsiasi momento del giorno, era blanda e calda
e bellissima, e scivolava sulla pelle come le dita soffici di una madre
sulla testa imberbe del neonato.
Ma ora non c’era niente di
tutto questo.
La luce che filtrava dal
cielo annuvolato era poco più di uno spettrale riverbero bluastro.
Nell’aria innaturalmente immota, il fresco profumo di primavera che
ricordava dalla sua infanzia era degenerato in un odore dolciastro e umido
di foglie marce, terra umida e frutta putrefatta. Molto in lontananza si
avvertiva il gorgoglio malato di un fiumiciattolo sulle pietre (ad Aragorn
ricordò il mormorio febbricitante di un vecchio in punto di morte); ma
nessuna creatura vivente sopravviveva tra gli alberi – tristi sagome
contorte che artigliavano il cielo con le braccia scarne.
Accanto a lui, sulla
piattaforma di marmo, la colonnina dove un tempo risiedeva lo specchio di
Galadriel era stata spezzata in due, e non vi era alcuna traccia del
catino d’argento. Più in là, la sorgente da cui sgorgavano le magiche
acque era ridotta ad una ferita sterile nella roccia.
Aragorn si allontanò in
fretta, attanagliato dall’angoscia.
Ma ovunque andasse, il
panorama non cambiava: grigio, sterile e marcio.
Aveva la sgradevole
sensazione di aver già visto tutto questo, ed era vero, sebbene lui non
potesse ricordarlo: era stato in una delle visioni indicibile che lo
specchio di Galadriel gli aveva mostrato.
Ad un certo punto, mentre
passava sotto i resti dondolanti di un antico talan, gli parve di
sentire risatine soffocate aleggiare sopra la sua testa, e occhi e bocche
muoversi nelle ombre tra gli alberi. Ma erano illusioni di un luogo
infestato da anime senza pace.
Raggiunse correndo
l’alcova dove lui ed i suoi compagni avevano dormito durante il loro
soggiorno nei boschi d’oro, e trovò solo una radura riarsa. Qui e là, tra
i resti di erba bruciata, erano ammucchiati vecchi rami anneriti dalle
fiamme. In fondo, dove un tempo gorgogliava una fontana di marmo, qualcosa
lampeggiava argenteo tra la melma.
Con orrore sempre
crescente, Aragorn riconobbe nel pezzo di metallo contorto e
semi-liquefatto la brocca con cui Legolas aveva attinto l’acqua la sera
del loro arrivo. Era immersa in un liquido puzzolente e scuro, e marci
petali bianchi galleggiavano attorno ad esso come spettri nella notte.
Aragorn si voltò e si
precipitò fuori dalla radura, temendo di poter riconoscere nel brillio
argenteo impigliato tra gli arbusti poco più in giù la casacca preferita
del suo Elfo.
Scese una rampa di scale
come se fuggisse, evitando per un soffio di finire ingoiato da una
voragine che si aprì sotto il suo peso nel legno marcescente. Raggiunse le
postazioni delle sentinelle (Haldir, Orpohin e Rumil, fratelli del
Lórien, pensò) e trovò i loro rifugi abbattuti e ricoperti di viscido
muschio. Il letto vuoto del Nimrodel occhieggiava da una profonda gola
alla sua destra, ed il vento che correva tra le pietre aguzze gemeva come
una donna addolorata.
Aragorn non resistette un
minuto di più.
“Cos’è successo?” gridò al
cielo. “C’è nessuno qui? Mi sentite? Che qualcuno mi risponda!”
Dapprima, la sua voce
parve venire assorbita dalla foresta, risucchiata in modo innaturale e
imprigionata. Poi un’eco sinistra esplose da tutt’intorno a lui, facendolo
sussultare.
Mi risponda! Mi
risponda! Mi risponda!
Uno stormo di corvi si
alzò dalle fronde protestando, e decine di piccoli occhi fiammeggianti si
posarono su di lui. Aragorn ebbe appena il tempo di riprendersi dalla
sorpresa che udì una voce titubante venire da un punto imprecisato nella
sterpaglia.
“Chi sei? Che ci fai qui?”
chiese la voce. “Non vedi che questo luogo è morto?”
Aragorn si voltò di
scatto, portandosi una mano alla cintura prima di rendersi conto di essere
disarmato. Percorse con lo sguardo il panorama desolato, fino a notare un
fruscio insolito nella chiazza di erba alta al limitare della foresta. Fu
verso quel fruscio che indirizzò la sua risposta.
“Ho molti nomi, ma dubito
che alcuno di essi vi sarebbe familiare. Voi chi siete? E perché vi
nascondete? Non avete nulla da temere da me. Mostratevi, vi prego, e
ditemi… ditemi cosa è successo qui!”
“Come puoi non sapere una
cosa simile? Ti burli forse di me? Dimmi il tuo nome, sfrontato!”
“Ditemi il vostro, prima.”
Attese qualche istante,
fiutando l’aria umida e tendendo l’orecchio. Infine gli giunse alle
orecchie il suono ruvido dell’erba smossa da un peso considerevole.
Nell’aria c’era un vago sentore acido di ansia.
Una persona sola,
concluse Aragorn. E non umana.
“No,” rispose la voce
nell’erba.
“Allora siamo ad un punto
morto. Io non vi dirò il mio nome senza sapere il vostro, e voi vi
rifiutate di collaborare.”
“Dimmi il tuo nome!”
Aragorn si avvicinò di
soppiatto verso il suo misterioso interlocutore. Camminò tracciando un
semicerchio, facendo attenzione a rimanere sulla stretta striscia di terra
che un tempo era stato il sentiero maestro. Non fece il più piccolo
rumore.
Gli bastarono un paio di
metri per vederlo. Una piccola forma avvolta in un mantello grigio,
acquattata tra l’erba alta con le mani strette attorno ad un bastone
contorto. Sull’estremità più alta del bastone, legata rozzamente con un
pezzo di corda lisa, baluginava la punta scheggiata e rugginosa di quella
che un tempo doveva essere stata un’ascia finemente lavorata.
Chiunque fosse, la
creatura dava segni di impazienza: le sue mani guantate si stringevano e
rilassavano a intervalli attorno all’impugnatura della sua arma, e la
testa china era tesa verso il punto dove Aragorn si era trovato l’ultima
volta che aveva parlato.
“Dimmi il tuo nome,
straniero!” Chiese con una vaga irritazione nella sua voce, che andò
crescendo ogni volta che ripeteva la sua richiesta senza ricevere
risposta. Infine la creatura bofonchiò qualcosa, e si alzò cautamente in
ginocchio, rimanendo in equilibrio precario per non più di un secondo.
Aragorn approfittò di quel
momento di virtuale vulnerabilità.
Si lanciò in avanti con le
mani protese, afferrò le spalle della creatura, che si dibatté, urlando in
una lingua che Aragorn conosceva, ma che l’impeto della battaglia non gli
permisero di riconoscere, e la spinse violentemente verso una roccia. La
creatura annaspò ciecamente per qualche secondo, quindi riuscì a piantare
il gomito nel ventre del Ramingo, che barcollò all’indietro annaspando.
Approfittando della sua
sorpresa la misteriosa creatura colpì ancora. Aragorn parò con
l’avambraccio un pugno di eccezionale potenza (no, non è affatto umano,
pensò di nuovo) ed infilandosi sotto il braccio teso (operazione
difficile, contando quanto era basso il suo avversario), si torse e
gli afferrò il polso con entrambe le mani. Quindi, con un calcio mandò la
rudimentale ascia a perdersi tra l’erba mostruosa.
Difficile capire cosa
successe poi.
La creatura si voltò
fulminea, ed Aragorn ricadde a terra con un tonfo. Rischiò di essere
colpito al volto da un calcio possente, rotolò via, poi, con una sveltezza
impossibile da seguire con lo sguardo, Aragorn affondò i talloni nel petto
del suo avversario, spedendolo a terra. Seguì un movimento velocissimo, ed
Aragorn si schiacciò contro la creatura che sputava insulti,
immobilizzandogli i polsi con le mani.
Solo allora lo guardò in
viso, e si sentì mancare.
“Gimli…”
Il Nano smise di
divincolarsi, quasi fosse stato colpito violentemente alla testa. La
tensione nel suo corpo svanì, ed Aragorn percepì la sua furia combattiva
defluire come la bassa marea.
“Mi conosci?”
“Gimli, figlio di Gloin…”
mormorò Aragorn. “Cugino di Balin, Signore di Moria… Gimli…”
La folta barba del Nano,
(inargentata, ora e non più rossiccia) si increspò quando Gimli sorrise a
fior di labbra. Aragorn notò con un moto di orrore che i peli grigi nella
barba e le profonde rughe sulle guance non erano gli unici cambiamenti
avvenuti nel Nano. Sfiorò con mano tremante le sue palpebre chiuse, ed
esalò convulsamente.
“I tuoi occhi…” La
cicatrice livida di un’antica bruciatura si stagliava netta sotto le folte
sopracciglia, tagliandogli il viso da orecchio ad orecchio. Sotto le dita,
le palpebre chiuse erano tumide e squamose – ammassi bianchicci di
tessuto cicatrizzato.
Cieco. Gimli era cieco.
Il Nano scrollò le spalle.
“Un attacco a tradimento
di quei maledetti Orchetti,” ringhiò con la sua consueta caparbietà. “Ma è
storia vecchia ormai.” Si alzò lentamente in piedi, spazzolandosi la
tunica come se potesse vedere le chiazze di terra ed erba che
l’impataccavano, e sorrise nella direzione da cui veniva il respiro mozzo
del Ramingo. “Tu piuttosto? Chi sei? La tua voce mi è familiare, ragazzo.
Ti conosco?” Alzò le mani titubanti verso di lui, sfiorandogli il mento
più per fortuna che altro. “Posso?” Sentì Aragorn annuire meccanicamente
contro i polpastrelli, e lentamente iniziò a tastargli il volto.
“Un Uomo, si,” mormorò.
“Il tuo volto… posso quasi vederlo. E’ duro… e nobile. C’è forza, nella
linea del tuo mento. E tristezza, nella piega della tua fronte. Ma mi è
difficile riconoscerti. Da quando di conosco? E’ da… prima?”
“Si,” Aragorn si sentiva
la gola riarsa. Deglutì a vuoto, ma il nodo che aveva in gola si
intensificò soltanto.
“Ah, lo sapevo, lo
sapevo,” borbottò Gimli. Il suo viso era chiuso in un espressione di
indicibile concentrazione. Le sue dita esitarono solo una volta,
sussultando quasi, e la sua bocca si dischiuse in un moto di sorpresa,
durante l’esplorazione il volto del Ramingo. “Non può essere…” mormorò
quando ebbe finito.
Passò qualche secondo di
completo silenzio, poi: “Non so come, ma mi fido di te,” aggiunse. Tastò
lentamente il terreno mentre si alzava in ginocchio. “Sei venuto ad unirti
a noi nella lotta contro Sauron, ragazzo? Sei forte. E furbo. Turlos ne
sarà felice.”
Aragorn si scosse.
“Il Signore della
Neve?” chiese. Gimli annuì.
“E’ lui che ci guida.
Dammi una mano, ragazzo.” Brancolò verso Aragorn con un braccio mentre si
tirava goffamente in piedi. Aragorn lo assistette come meglio poteva,
chiudendogli una mano attorno al gomito, e si tirò su assieme a lui.
“Hmpf. Grazie, grazie,”
bofonchiò Gimli. “Dov’ero rimasto? Ah, si: Turlos,” sospirò. “Più morto
che vivo, quel ragazzo. Già. Che tristezza, vedere una vita sprecata in
quel modo in nome dell’Odio. Volesse il cielo che il suo cuore di ghiaccio
conoscesse di nuovo l’amore!” Fece una strana smorfia. Se non sapesse che
era cieco, Aragorn avrebbe giurato di vederlo lanciargli un’occhiatina di
sottecchi.
Poi il Nano scosse le
spalle, annaspando in avanti in cerca di qualcosa. Aragorn lo prevenne, e
chinandosi senza suono nell’erba ne emerse con la mazza del Nano.
Lentamente gliela porse, senza dire una parola. Gimli chiuse le dita
attorno alla sua arma con un sorriso a metà tra il soddisfatto e lo
stupito.
“Eccola qui! Seguimi,
ragazzo!” Si fermò un istante ad odorare il vento, quindi partì al trotto
in direzione Nord, usando la rudimentale ascia come bastone d’appoggio.
Aragorn lo seguiva da presso, preoccupato suo malgrado che il Nano potesse
inciampare e ferirsi. Non successe, ed anzi Gimli scavalcò più di una
volta una roccia infida o una radice che affioravano appena dal fango come
se potesse vederli.
Per tutto il tragitto,
borbottò concitatamente a proposito di Turlos.
Aragorn si limitò a
mormorare una risposta qui e lì, senza prestare veramente attenzione a ciò
che Gimli stava farneticando: l’orrore indicibile, la ripugnanza, il
fetore sacrilego di ciò che vedeva attorno a sé era tutto ciò che occupava
la sua mente in quel momento. Semplici parole non potrebbero evocare ciò
che Aragorn vide e provò in quei momenti da incubo. Più di una volta il
Ramingo sperò con tutto il cuore di essere impazzito, così da rendere
tutto ciò che vedeva una macabra visione. Perse il conto delle volte che
sentì le lacrime colmargli gli occhi.
Laggiù, quel cumulo di
terra bruna e brulicante, non era forse il luogo dove aveva detto ad Arwen
di amarla?
E quei grumi di pietra che
emergevano dal fiumiciattolo schiumante, non erano forse il ponte dove per
la prima volta aveva conversato con Legolas?
Con la vista offuscata dal
pianto, Aragorn si prese la testa tra le mani ed avanzò come un ceco.
Una volta fuori dalla
foresta imputridita Gimli lo condusse in un acquitrino puzzolente, una
palude fetida da cui sbucavano, di quando in quando, i resti rosi e
butterati di uno squisito insediamento Elfico. Liane di musco penzolavano
beffarde sopra le loro teste. E gli alberi, gli alberi giganteschi e
contorti affioravano dalla nebbia gelida come le ossa corrose di creature
fantastiche.
Infine, (Aragorn non
avrebbe saputo dire dopo quanto tempo), i due raggiunsero un tratto
relativamente più asciutto della Palude.
Gli alberi si aprirono
attorno a loro rivelando una radura a forma di conca che terminava di
fronte a loro in una ripida parete rocciosa coperta di rovi: il fianco di
una collinetta che saliva a perpendicolo col terreno.
Al centro della radura
sciabordava quieta una polla stagnante, e dall’acqua affiorava un isolotto
erboso, largo non più di un acro. Su di esso, c’era un blocco squadrato di
ruvido marmo bianco.
Gimli esitò un attimo, poi
condusse Aragorn verso l’altare.
Il Ramingo credeva di aver
conosciuto, quel giorno, tutto l’orrore che è concesso di conoscere ad un
Uomo in una vita intera.
Si sbagliava.
Perché davanti a lui,
steso sul catafalco di pietra con le braccia incrociate al petto,
orribilmente scheggiato e screziato di licheni verdastri, stava un suo
simulacro.
Aragorn si sentì mancare,
e solo per poco non ricadde indietro nell’acqua malsana quando la sua
mente comprese pienamente cosa fosse ciò che aveva davanti:
La sua tomba.
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